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IL RITONO AL NUCLEARE: UNA STORIA INFINITA

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Mentre è in corso il Seminario Nazionale per la disamina dei problemi connessi alla realizzazione del Deposito Nazionale dei Rifiuti Radioattivi di cui è responsabile la Sogin, società di stato deputata in base alla legge 31 del 2010 alla gestione delle scorie radioattive, in Italia si ricomincia a parlare di produzione di energia elettrica da nucleare.

Non siamo ancora in grado di smaltire i rifiuti radioattivi esistenti, fatto che dobbiamo gestire in proprio come  ha richiesto l’Europa con la direttiva 70 del 2011, che già, e per l’ennesima volta, a partire dal Ministro della Transizione Ecologica e inaspettatamente da alcuni politici di spicco si riesuma il fantasma del nucleare, come fonte di energia elettrica. Atteggiamento che si era già verificato nel 2010 quando si stava riproponendo un ritorno al nucleare. Evento per una coincidenza del destino sventato dal disastro di Fukushima, che generò il secondo referendum italiano, che avrebbe dovuto tombare definitivamente qualsiasi velleità futura nei confronti di questa pericolosa e indomabile fonte energetica.

Un anno prima del dell’evento di Fukushima del marzo 2011, l’Italia aveva riproposto con la legge 31 del  15 febbraio 2010 un ritorno al nucleare: Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell'esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché' misure compensative e campagne informative al pubblico, a norma dell'articolo 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99.

Ironia del destino quella legge confusionaria fu in qualche modo anch’essa investita dagli effetti del disastro di Fukushima e si accavallò ai provvedimenti legislativi che dovevano consentire l’accettazione dei contenuti del referendum contro il nucleare, che si tenne a giugno del 2011. 

Il risultato è stato un disastro anche legislativo: la legge, che stando alla logica avrebbe dovuto essere abrogata in quanto conteneva direttive per un ritorno al nucleare che il referendum doveva bloccare, fu mantenuta viva anche dopo il successo del referendum antinucleare, ma decurtata della parte che prevedeva appunto le disposizioni per la produzione di energia elettrica. Così la legge sopravvisse, ma soltanto per quella parte che riguardava il tema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi. Proprio quella legge zoppa ed imprecisa è oggi la base della realizzazione del programma nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi, al centro della contestazione dei territori coinvolti nella CNAPI. Gli effetti strambi sui risultati della sua applicazione costituiscono oggi il casus belli fra aree giudicate potenzialmente idonee secondo la CNAPI e velleità della Sogin, l’azienda di stato deputata alla realizzazione del Deposito nazionale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.

L’imprecisione della legge e le sue carenze, in particolare rispetto alla applicazione dei criteri previsti nelle guide tecniche nazionali ed internazionali per la realizzazione in sicurezza dei depositi di scorie radioattive, hanno indotto la Sogin a progetti inapplicabili, zoppi dal punto di vista giuridico e normativo, e forieri di iniziative censurabili, come la recente produzione di nuove guide tecniche orientate a normare, magari anche ex post,  progetti altrimenti improponibili se non pericolosi. A questi appartiene in particolare il Programma Nazionale della Sogin che prevede di riunire in un unico deposito tutti i rifiuti radioattivi prodotti in Italia mischiando quelli a bassa attività con quelli ad alta attività. Fatto assolutamente illogico e rischioso per la salute e per l’ambiente: tutto il mondo tecnologicamente avanzato è concorde nel fatto che i rifiuti ad alta attività, quelli più pericolosi, che decadono dopo oltre 30.000 anni, debbono essere smaltiti e custoditi in depostiti speciali, i depositi geologici di profondità. Depositi che oggi non esistono al mondo e che necessitano di 100 anni per essere individuati come sede e realizzati. Deposito che neanche Sogin si sogna di realizzare: costa troppo , meglio attendere che l’Europa se ne interessi e magari realizzi un deposito unico Europeo.

Al riguardo oggi l’Europa è investita di un problema enorme, che presto si manifesterà in tutta la sua rilevanza. In Europa sono in attività 122 reattori nucleari, prevalentemente in territorio francese, e 6 sono in costruzione. L’Europa deve smaltire 6,6 milioni di mc di scorie radioattive e ad oggi non dispone di alcun deposito geologico di profondità in funzione.

La produzione di scorie radioattive è continua ed in aumento; per questo l’UE ha cominciato a mettere le mani avanti e  con direttive specifiche, ormai datate, fra cui la citata 70 del 2011,  impone agli stati membri di smaltire tutti i rifiuti radioattivi prodotti sul territorio nazionale.

E’ in questo clima che si sta attuando il Programma Nazionale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, di cui la CNAPI è il primo step.

Gli stakeholder, pubblici e privati, che si sono confrontati con la CNAPI hanno dovuto faticosamente capire la realtà districandosi attraverso migliaia di pagine prodotte da Sogin e nell’intrico di norme che vengono emendate e guide tecniche che vengono prodotte anche al fine di giustificare ex post quello che è stato improvvidamente dato per scontato prima e che non corrisponde né alla logica né alla legge né ai contenuti tecnici delle guide di riferimento.

L’affanno per voler far quadrare tutto rischia di creare danni peggiori, irrigidendo oltre ogni logica le posizioni delle parti contrapposte.

I Comuni, i Comitati e le Associazioni, di ogni Regione coinvolta nella CNAPI si sono dimostrati nettamente contrari al Progetto Sogin e alla CNAPI, nello specifico.  Questo dovrebbe pur significare qualcosa: se tutti, Enti pubblici e soggetti privati sono contrari e lo sono non sulla base di un pregiudizio, come molti vorrebbero sostenere, ma sulla base di qualificate osservazioni presentate al Seminario Nazionale, supportate da tecnici qualificati, professionisti, professori universitari, legali occorre che il Governo ne tenga conto.

Non è possibile che tutti siano contrari senza motivate ragioni: la Sogin aveva sbandierato fin dall’inizio che sarebbe stato necessario operare delle scelte fra quanti si sarebbero dimostrati favorevoli ad accogliere il DN a fronte dei fantastici benefici che ne sarebbero derivati, specie di natura economica. Tuttavia fino ad oggi nessuno ha abboccato. Dopo anni di imperterrite iniziative nel settore della produzione di energia elettrica, fra centrali nucleari, centrali policombustibili e a carbone, il territorio italiano ha cominciato a capire l’aria che tira. I supposti benefici economici, anche consistenti, condannano le aree a compromessi non sempre accettabili, specie sui temi della salute e della economia locale. La sensibilità verso questi temi si è progressivamente consolidata: l’allarme sull’inquinamento fonte di malattie, specie neoplastiche, e la rincorsa alla agricoltura di qualità, biologica in primis, dato che si stratta sempre di aree a vocazione agricola, tendono ormai a ingenerare resistenze sempre più solide. Impianti che sono destinati a durare decine e decine di anni non possono che condizionare il futuro di molte realtà: di qui la necessità di operare scelte quanto mai corrette e condivise con le popolazioni, fatto riconosciuto oggi dalle normative vigenti.

Pertanto le opposizioni delle Regioni e dei Comuni coinvolti nella CNAPI trovano fondamento specie se i progetti e i documenti presentati dai responsabili, oggi Sogin,  si dimostrano carenti.  Carta canta è il caso di dire: la documentazione Sogin riguardo al Seminario risulta un coacervo di imprecisioni e contraddizioni. Incongruenza rispetto alle normative vigenti, autoreferenzialità assoluta nella scelta e applicazione di metodiche scervellate, ma mirate a raggiungere a qualsiasi costo l’obbiettivo, e cioè quello di identificare l’area dove realizzare il DN PT, caratterizzano l’enorme quantità di documentazione ufficiale messa a disposizione degli stakeholder per consentire di controbattere o criticare i risultati del lavoro della Sogin. Oggi i tempi son o cambiati: non è così facile come negli anni 60 e 70, quando il sindaco o il capobastone politico erano in grado di imporre scelte di cui cittadini sapevano poco o niente. Oggi l’informazione corre veloce, professionisti ed avvocati competenti, almeno quelli liberi da vincoli con il sistema, sono disponibili ed agguerriti e se le “carte” presentano carenze ed errori non ci si fa scrupolo di denunciarne i difetti.  Quindi gli stakeholder, di tutte le specie, sono in grado di farsi tutelare, possono capire meglio la portata di problemi complessi e assumere decisioni opportune. Possono tentare di opporsi con armi tecniche e non soltanto ideologiche o pregiudiziali. In questo panorama manca invece la politica, come carenza di personaggi di alto rilievo in grado di far valere con la propria autorevolezza e riconosciuta capacità la correttezza di determinate tesi.  La politica è assente dalla periferia, cioè da quei Comuni, mediamente piccoli o molto piccoli, che caratterizzano la provincia italiana, dove progressivamente ha preso piede la moda delle liste civiche, oggi tecnica vincente delle elezioni comunali.  Per la politica avere forza di penetrazione in periferia è difficile. La disgregazione dei Partiti tradizionali ha lasciato un vuoto finora non colmato. Pertanto le liste civiche la fanno da padrone, e forse rappresentano quel tanto di reale democrazia che rappresenta l’attuazione pratica e reale di quel principio, appunto la democrazia, che stenta ormai a resistere alla commistione di poteri, in primis quello economico.  Forte distacco quindi fra potere centrale e periferia del paese, dove la politica si affaccia soltanto quando occorre racimolare voti per le elezioni di rango nazionale e regionale. Poi tutti a casa, ognun per sé. Neanche, come oggi sarebbe opportuno, di fronte a problemi di interesse nazionale con riflessi locali enormi, come appunto la realizzazione del Deposito Nazionale, unica sede di smaltimento e stoccaggio di tutti i rifiuti radioattivi italiani, la politica che conta si scomoda. Attende l’evoluzione dei fatti: ha lasciato la mano, confida che Sogin sia più forte di tutti, quindi è inutile perdere tempo, ma ancor di più è inutile, se non dannoso, esporsi. Che senso ha prendere posizione: seguire la evoluzione dei fatti premia maggiormente. L’importante è la tempistica dell’intervento, magari quando le decisioni ineluttabili sono state prese e una ingerenza tempestiva, magari garantista, potrà concedere spazi di manovra ormali lontani dalla responsabilità delle scelte, sempre rischiose specie in politica.

In questo clima si esternano oggi le nuove brame “nucleari” di parte della politica, di boiardi di stato in attesa di succulenti incarichi nel settore e da parte di ingegneri nucleari, i pochi rimasti sul campo, che con perseveranza talebana si impegnano per far rinascere un’idea che progressivamente si va giustamente spegnendo.

Nel mondo sono in funzione oltre 400 reattori nucleari, 122 sono attivi in Europa. Sono in costruzione 52 nuove centrali, 6 in Europa, ma 186 reattori sono stati spenti nel mondo e il problema dello smaltimento delle loro scorie radioattive attende ancora soluzioni.

I supposti vantaggi sarebbero rappresentati dall’abbattimento della emissione di sostanze nocive dalle centrali tradizionali, in primis la CO2, dalla indipendenza dai rischi del mercato del petrolio e del gas, dal supposto basso costo della produzione.

Nella tribuna dei sostenitori si alternano, oltre al Ministro della Transizione Ecologica, altri personaggi, boiardi di stato ora in disuso, pronti a sventolare la bandiera del nucleare e a tacciare imperturbabilmente di retrogrado e provinciale conservatorismo coloro che non sono d’accordo.

Il problema della utilizzazione dell’atomo nella produzione di energia, a settanta anni dalla sua introduzione, ha evidenziato una serie di criticità con le quali sarebbe eticamente corretto fare i conti prima di riproporre una rivoluzione di pensiero, come quella che da alcune parti si vorrebbe sostenere.

La utilizzazione dell’energia da nucleare è davvero meno inquinante rispetto alle forme di produzione tradizionali?

Riguardo ad esempio all’abbattimento della CO2, il gas serra più temuto allo stato attuale, non si può non riconoscere un vantaggio, anche se nelle centrali nucleari la produzione di CO2 è consistente. Parimenti non si può non riconoscere che l’abbattimento dei vari prodotti della combustione dei derivati del petrolio e del gas, come NOx, SO2, polveri pesanti, sarebbe annullata.

Ma come non tenere nella giusta considerazione il rischio di dispersione radioattiva legata a fenomeni acuti o cronici. I disastri di Cernobyl e Fukushima hanno chiaramente dimostrato che  a fronte di eventi catastrofici l’ingegneria specifica è carente e  l’intervento umano spesso inadeguato.

Il ritorno al nucleare potrebbe diminuire la dipendenza dal mercato del petrolio e del gas, fatto assolutamente non trascurabile, ma già da ora destinato ad una riduzione progressiva. L’abolizione delle motorizzazioni tradizionali per gli autoveicoli e il passaggio all’elettrico non può che ridimensionare l’approvvigionamento di tali prodotti. Ridimensionamento che trova una giustificazione anche nell’uso progressivo di energie rinnovabili, come eolico e fotovoltaico.

Sui costi di produzione di energia elettrica da nucleare andrebbe aperto un dibattito serio. Innanzitutto andrebbero tenuti in conto tutti i costi sostenuti da una nazione per dotarsi di un impianto nucleare, ma parimenti anche i costi di smaltimento. Tanto per fare un esempio: la centrale di Montalto di Castro è costata allo stato e quindi ai contribuenti, migliaia di miliardi delle vecchie lire per poi essere stoppata dal referendum. Oggi sarebbe una centrale da smantellare, se avesse funzionato, stando alla vita stimata degli impianti nucleari, e sarebbe rilevante capire quale vantaggio economico ne sarebbe realmente derivato.

Occorrerebbe, inoltre, fare anche i conti con le incognite del decommissioning  delle centrali nucleari,  oggi uno dei problemi di maggiore  complessità al mondo e senza alcun dubbio di impressionante costo. Tutto il mondo scientifico è concorde sul fatto che lo smaltimento dei rifiuti ad alta attività, quelli derivanti dal decommissioning delle centrali nucleari, deve essere attuato in depositi geologici di profondità. Attualmente non ne esiste uno in funzione al mondo. L’Europa che deve smaltire 6,6 milioni di mc di rifiuti radioattivi non ha al momento soluzioni pratiche. Si pensa vagamente ad un deposito europeo, ma si tratta di un sogno irrealizzabile: quale stato europeo per quanto affamato di euro potrebbe accettare un simile servitù territoriale? Si tratterebbe di condannare per l’eternità una regione che si prestasse o fosse obbligata ad accogliere il Deposito, data la durata del tempo di decadimento del materiale ad alta attività che necessita di oltre 30.000 anni.

A fronte della difficoltà di smantellamento delle reattori nucleari oggi in attività, alcuni paesi, Francia compresa, hanno stabilito tout court di prolungare la vita delle centrali che dovrebbero essere dismesse in questo periodo, altra soluzione che dimostra i limiti insuperabili della tecnologia attuale in tema di smaltimento e i rischi irragionevoli ai quali si esporranno decine e decine di future generazioni. Anzi, in vista delle prossime elezioni presidenziali francesi, lo stato europeo più nuclearizzato sbandiera bellicosi intenti di potenziamento delle centrali nucleari, programma sostenuto dall’ambizioso presidente Macron ai fini del consenso elettorale , richiamandosi al grande e ormai vetusto piano energetico del presidentissimo De Gaulle   di cui vuole imitare la grandeur. Ma si sa i Francesi in nome della grandeur farebbero tutto e di fronte alla memoria del piano De Gaulle non possono che commuoversi e dimostrare apprezzamento per il suo attuale epigono, quando riesuma le gloriose “imprese” politiche e industriali di tale insigne predecessore.

Diversa è la posizione della Germania, da sempre un passo avanti alle consorelle nazioni europee. E’ stata la prima nazione a distaccarsi nei fatti dal motore a scoppio, pur essendone la massima autorità mondiale, per abbracciare senza se e senza ma l’elettrico. Fra pochi anni in Germania circoleranno solo auto elettriche. Inoltre la Germania ha statuito che alla fine del 2022 lascerà il nucleare, forse anche spinta dai problemi derivanti dalle difficoltà di smaltimento delle scorie radioattive. L’esperienza negativa della realizzazione di un deposito geologico in una ex miniera di salgemma nell’Asse, completamente fallito e causa di rilevantissimi problemi ambientali, è stata forse la spinta più concreta all’abbandono del nucleare.   Il massivo ricorso alle fonti di energia alternativa, in particolare al fotovoltaico, hanno dimostrato che questa fredda regione d’Europa è in grado di approvvigionarsi di energia elettrica da fonti rinnovabili per il 38 % del fabbisogno nazionale. E continua su questa strada.

Al contrario l’Italia, che per una volta è all’avanguardia, non usa il nucleare per produrre energia elettrica, pensa per la terza volta nella sua storia al ritorno a questa pericolosa fonte di energia.

Non sono bastati due referendum per far comprendere che l’Italia del nucleare non ne vuole sentire parlare.

Le banali scuse prese in considerazione dai nuovi talebani del nucleare non reggono alla logica.

 In Italia, la costruzione di una nuova centrale nucleare necessiterebbe di decine di anni ed inoltre un piano nazionale dovrebbe prevedere la realizzazione di un numero congruo di impianti nucleari, determinando più focolai di resistenza, causa certa  di ritardi, compromessi e, come sempre in Italia, di scelte sbagliate a carico dei più deboli. Nel lungo arco di tempo prevedibile per la realizzazione di centrali nucleari è probabile che il costo dei gas e prodotti petroliferi abbia il tempo di diminuire drasticamente, in relazione inversa alla utilizzazione di energie alternative, come fotovoltaico ed eolico, che in Italia progressivamente aumentano e già oggi si attestano a livelli considerevoli.

Nel mondo il nucleare fornisce il 13,5% di energia elettrica: si tratta di quote che già oggi in alcuni Paesi virtuosi sono superate dalla utilizzazione di fonti rinnovabili ed ecologiche. Germania docet.  Inoltre, l’abbattimento della CO2 , progressivamente si dimostrerà efficace sia grazie al progressivo abbandono della  motorizzazione tradizione delle auto sia al progressivo uso di fonti alternative. Inoltre, e su questo si dovrebbero concentrare gli sforzi della ricerca, anche le centrali tradizionali, escludendo il carbone, potrebbero, se opportunamente aiutate dal progresso tecnologico, emettere CO2 ed altri inquinanti in quantità progressivamente minori. Trattandosi di un problema planetario, i Paesi tecnologicamente avanzati dovrebbero farsi garanti in qualche modo della realizzazione di nuove centrali, ovunque queste saranno realizzate,  imponendo la adozione di tecnologie di avanguardia e tese al minore inquinamento. Questo piuttosto che vendere ai paesi in via di sviluppo tecnologie per la produzione di energia elettrica obsolete ed altamente inquinanti.  Anzi gli stati più ricchi dovrebbero incentivare le nuove e migliori tecnologie anche negli stati in via di sviluppo, fornendo aiuti economici nel settore specifico della produzione di energia elettrica purché finalizzati alla adozione delle migliori e più aggiornate tecnologie. Uno sforzo unanime consentirebbe una concreta riduzione delle emissioni, forse anche maggiore rispetto ad un ritorno al nucleare, anacronistico e comunque tardivo. La competizione oggi è fra nucleare e fonti rinnovabili ed ecologiche: la battaglia è già persa. Anche soltanto per  i costi: 1 megavattora di energia elettrica da nucleare costa 130 € a fronte di 30 € per il fotovoltaico.

Infine, c’è davvero bisogno di continuare ad implementare il pianeta di rifiuti nucleari ad alta attività per il decommisioning futuro di nuove centrali, quando non siamo in grado di smaltire l’attuale?

Non occorre essere strateghi della finanza o scienziati nucleari per comprendere alcuni basilari principi della logica applicati al problema di cui trattiamo. Sarebbe invece interessante capire perché questo accanimento per una tecnologia ormai retrograda. Questo è bene lasciarlo agli strateghi dell’economia, e alla inadeguatezza della politica, un mix che progressivamente sta inquinando il mondo: la finanza sta sorpassando il valore della politica anzi detta la politica. E’ questa la triste realtà: una classe politica spesso inadeguata, subisce l’influenza sempre più invadente della finanza, che si riflette anche sugli altri pilastri della democrazia, fra questi la cultura, spesso asservita anch’essa alle smisurate e ormai incontrollabili ambizioni di una élite economica trasversale che inizia ad imporre un suo modo di vedere e gestire il mondo e i suoi abitanti.

 Per tornare a noi, comuni mortali, il ritorno al nucleare appare obbiettivamente poco credibile, mentre il problema dello smaltimento delle scorie nucleari è una dura realtà, fotografata da una frase lapidaria di una esperta del settore: Rebecca Harms, eurodeputata responsabile del dossier “The world nuclear waste report 2019”: “ We can phase out nuclear power, but we cannot phase out the nuclear waste and its eternal risks”.

firma di giorgio